I PERSONAGGI
        Santa Filippa Mareri  
        
         Il XIII secolo è fortemente connotato, 
          nell'Italia centrale, dalla presenza carismatica di Francesco e Chiara 
          d'Assisi, i quali affermano e diffondono un nuovo modello di vita spirituale.
          In questa età, che vede coesistere le forme più tradizionali 
          del potere feudale accanto all'organizzazione dei liberi comuni, il 
          loro messaggio è recepito all'interno di ogni ceto, sia dall'antica 
          aristocrazia fondiaria e cavalleresca, sia da parte della borghesia 
          emergente.
          La figura di Filippa Mareri, francescana e feudataria, assume singolare 
          importanza proprio per comprendere più da vicino l'incisività 
          e gli esiti del messaggio francescano.
          Figlia di Filippo dei conti Mareri, signore del Cicolano, la giovane 
          si sottrae al proprio destino muliebre aderendo entusiasticamente al 
          messaggio francescano.
          L' Officium beatae Philippae descrive puntualmente le tappe canoniche 
          della vita mirabile della santa: la madre Imperatrice presagisce, durante 
          la gravidanza, lo straordinario futuro che attende la creatura che porta 
          in seno; ancora bambina, Filippa rivela una spiccata sensibilità 
          religiosa, preferendo ai giochi la preghiera e le pratiche di carità.
          Giunta in età da marito, rifiuta caparbiamente di assecondare 
          la volontà del padre e dei fratelli, che vorrebbero per lei un 
          matrimonio prestigioso, utile a rinsaldare le loro alleanze politiche.
          Filippa compie, come primo gesto di ribellione, l'atto simbolico della 
          tonsura, recidendosi i capelli.
          Poi, dopo aver tentato di destinare la sua stanza in un luogo di preghiera, 
          si allontana dal castello avito per trovare rifugio eremitico in una 
          grotta consacrata, già meta di pellegrinaggio per le popolazioni 
          della valle del Salto.
          Attorno a Filippa, si raduna un gruppo di compagne decise a condividerne 
          la vita religiosa: sarà il nucleo iniziale della comunità 
          monastica che la famiglia, cedendo alla decisa volontà della 
          giovane, le consentirà di fondare mediante la concessione dello 
          ius patronatum sulla chiesa di San Pietro de Molito.
          Il monastero così istituito da Filippa, che assume la Regola 
          delle Pauperes Dominae di Santa Chiara pur mantenendo il titolo feudale 
          di "Baronessa", è il primo monastero francescano nel 
          territorio del Regno di Napoli.
          La chiesetta di San Pietro de Molito, presto ristrutturata ed adibita 
          a monastero, diventa un punto di riferimento sicuro per gli abitanti 
          del luogo, gli stessi che sentirono, la notte in cui Filippa morì, 
          l'annuncio celeste: "mortua est sancta Philippa".
          Da allora, per oltre sette secoli, la figura di Santa Filippa Mareri 
          ha esercitato la sua positiva influenza sul territorio cicolanense, 
          rinnovando il messaggio francescano: il monastero di Borgo San Pietro 
          ha costituito infatti per la vita spirituale, morale e civile del Cicolano 
          un punto di riferimento fondamentale.
         
        La beata Colomba da Rieti (1467-1501)
         Nata a Rieti da una famiglia della borghesia 
          mercantile cittadina, la beata Colomba appartiene ad un nutrito gruppo 
          di donne di alta spiritualità che praticarono una consapevole 
          scelta di vita religiosa, portando un sensibile contributo alla riforma 
          morale della società del loro tempo all'interno del Terz'Ordine, 
          che consentiva esperienze intermedie tra la condizione secolare e la 
          condivisione di una regola cenobitica.
        Furono soprattutto gli Ordini Mendicanti a promuovere 
          durante l'età comunale la diffusione del Terz'Ordine, che accoglieva 
          uomini e donne ed ammetteva ai voti anche le persone coniugate, purché 
          in stato di vedovanza o disposte a vivere castamente lo stato matrimoniale.
          In particolare, Colomba da Rieti aderì al Terz'Ordine della Penitenza 
          di San Domenico, rinnovando il carisma di Santa Caterina da Siena nella 
          sua breve ed intensa vita, trascorsa fra la città natale di Rieti 
          e la patria adottiva di Perugia.
          A Rieti, Colomba maturò la sua aspirazione alla vita religiosa, 
          rifiutando un vantaggioso matrimonio che avrebbe consentito alla sua 
          famiglia, benestante ma dai natali oscuri, di stabilire rapporti di 
          parentela utili a favorirne l'affermazione nell'amministrazione cittadina.
          Il suo strenuo diniego la espose alle critiche ed alle pressioni del 
          parentado, la costrinse ad un forzoso isolamento: neppure le monache 
          benedettine di Santa Scolastica, che pure ben conoscevano ed apprezzavano 
          le sue virtù, poterono aiutarla nei tristi frangenti che dovette 
          affrontare a soli dodici anni di età.
          Finalmente, a diciotto anni, ottenne dai familiari il consenso a vestire 
          l'abito del Terz'Ordine. Rimase quindi in famiglia, così come 
          la Regola di Munio di Zamora le consentiva, continuando a lavorare i 
          pregiati tessuti commerciati dal padre e dallo zio.
          A ventuno anni, abbandonò misteriosamente la città intraprendendo 
          un arduo viaggio alla volta di Perugia, che alcune visioni le indicavano, 
          pur senza che essa la riconoscesse, come la città dove avrebbe 
          manifestato appieno le sue doti.
          Giunta a Perugia nel settembre 1488, Colomba da Rieti vi fondò 
          un proprio monastero, contribuendo così alla riforma della vita 
          claustrale.
          Anche a Rieti, la casa dove era nata ospitò un monastero domenicano: 
          qui infatti trovarono accoglienza nel 1496 le monache di Sant'Agnese, 
          il cui complesso extra moenia era stato distrutto da un incendio.
          Colomba da Rieti stabilì un profondo rapporto di tutela spirituale 
          e di assistenza materiale e morale nei confronti della città 
          di Perugia, impegnandosi come consigliera nei confronti delle più 
          alte autorità del suo tempo, dagli esponenti del casato dei Baglioni, 
          che da poco avevano affermato la loro Signoria, fino ad Alessandro VI 
          ed ai suoi figli, Cesare e Lucrezia.
          Provata dai continui digiuni e dai postumi della peste che l'aveva colpita 
          nel 1494, quando con il suo sacrificio aveva allontanato il contagio 
          dalla città, morì in odore di santità il 20 maggio 
          1501: le due Diocesi di Rieti e Perugia ne promossero la canonizzazione, 
          concessa da Urbano VIII nel 1697, ed a tutt'oggi la venerano come compatrona.
          
         
        Il cardinale M. A. Amulio, vescovo 
          della riforma cattolica
         Fra i vescovi che si sono avvicendati nei secoli 
          alla guida della Diocesi di Rieti, spicca la figura del Cardinale Marcantonio 
          Amulio, che ne resse le sorti all'epoca del Concilio di Trento provvedendo 
          attraverso una pastorale attiva ed impegnata a filtrare le norme e le 
          innovazioni della Riforma cattolica nell' ambiente chiuso e retrivo 
          della provincia reatina.
          Patrizio veneziano, Marcantonio Da Mula che con vezzo umanistico, soleva 
          chiamarsi Amulio - nacque nel 1506.
          Compiuti a Venezia gli studi umanistici, frequentò l'ateneo padovano 
          per studiare diritto e praticare successivamente la carriera politica.
          Come ambasciatore del Senato di Venezia, fu apprezzato ambasciatore 
          presso le corti europee più importanti.
          Rappresentò così Venezia presso l'imperatore Carlo V, 
          presso Filippo II di Spagna, infine presso papa Pio IV.
          Continuando a coltivare l'oratoria e le lettere, intrattenne rapporti 
          con i più validi esponenti della cultura del tempo, da Pietro 
          Bembo a Bernardo Tasso, dall'Aretino al Trissino.
          Proprio l'incontro con papa Pio IV fu determinante per la vita futura 
          dell'Amulio.
          Il papa, infatti, fallito il tentativo di nominarlo vescovo di Verona 
          per l'opposizione della Serenissima, nel 1561 lo insignì della 
          dignità cardinalizia e gli attribuì importanti incarichi 
          presso la Curia Romana.
          Il lavoro del Cardinale Amulio fu determinante per la ripresa e la conclusione 
          del Concilio di Trento.
          Nel novembre 1562, gli fu affidata la cura della Diocesi di Rieti, in 
          cui entrò solennemente nel settembre dell'anno successivo: tenne 
          degnamente l'incarico fino alla morte, che lo colse nel marzo 1572, 
          realizzando in poco meno di un decennio un'intensa azione pastorale, 
          finalizzata ad applicare le norme conciliari in una prospettiva di riforma.
          Fra le prime iniziative intraprese con successo, è la tempestiva 
          apertura del Seminario Diocesano, primum post Concilium Tridentinum, 
          secondo la iscrizione di un sigillo conservato presso l'Archivio di 
          Stato di Roma.
          Non meno sollecito è l'intervento a favore delle orfane e delle 
          fanciulle povere, per le quali istituisce la Compagnia del gran nome 
          di Dio organizzando un asilo presso i locali dell'antico Ospedale della 
          Misericordia.
          L'istituzione, pur nata sotto i migliori auspici, non sopravvisse però 
          al suo generoso fondatore.
          Il Cardinale Amulio provvide all'effettuazione delle Visite Pastorali 
          nel territorio della Diocesi, s'impegnò nella riforma dei monasteri 
          femminili imponendovi la clausura a norma dei Decreti tridentini e provvedendo 
          a trasferire intra moenia il monastero di Santa Lucia, l'unico sito 
          rimasto isolato oltre la cerchia delle mura cittadine.
          Per meglio regolamentare ed organizzare la vita e l'attività 
          del clero secolare, convocò il Sinodo le cui Costituzioni rappresentano 
          un esempio di equilibrio e di fermezza di giudizio "principalmente 
          per moderare i costumi, emendar gli errori, ridurre a quiete tutte le 
          controversie et rinovare et terminare altre cose", così 
          come attestano gli stessi decreti sinodali.
          
         
        Loreto Mattei
         L' erudito poeta Loreto Mattei è tra 
          i più significativi esponenti della cultura controriformista 
          del XVII secolo, che rappresenta degnamente nell'area sabina.
          Nato a Rieti nel 1622, fu profondamente legato alla terra natale e seppe 
          valorizzarne il dialetto e le tradizioni popolari nella produzione di 
          sonetti che per molti versi anticipano la forza dirompente e trasgressiva 
          di Giuseppe Gioacchino Belli.
          La sua fama di letterato fu però legata ad opere di traduzione 
          di salmi ed inni sacri.
          Alla pubblicazione del Salmista Toscano, titolo sotto il quale propose 
          nel 1671 una fra le prime traduzioni dei Salmi di David in italiano, 
          seguì nel 1689 l'Hinnodia Sacra, dedicata agli Inni del 
          Breviario Romano.
          Tra la prima e la seconda traduzione di testi canonici, pubblicò 
          a Rieti nel 1679 la Metamorfosi lirica d'Horatio Parafrasato e Moralizato.
          E' questa l'opera di traduzione che meglio consente di individuare e 
          tratteggiare la personalità dell'uomo e la poetica dello scrittore: 
          Loreto Mattei dimostra di essere un intellettuale
          lucido e coerente nell'adesione sistematica ai dettami della Chiesa 
          di Roma, per cui si adopera nel fornire strumenti culturali di prim'ordine, 
          emendando ciò che ad essa non si conforma.
          Non a caso, alla morte della moglie sceglierà coerentemente di 
          entrare nell'ordine sacerdotale.
          I figli Pietro e Paolo si susseguiranno nella carica di canonici della 
          Cattedrale.
          Nei Sonetti dialettali, che il Mattei scrive per proprio diletto e che 
          saranno pubblicati a più di un secolo dalla sua morte, egli riesce 
          magistralmente ad esprimere il suo spirito salace fino al sarcasmo, 
          alternando a rari squarci lirici, dedicati alla città ed alla 
          campagna di Rieti, descrizioni amaramente realistiche o crudamente trasgressive.
          Ancora alla città ed alla sua storia antiquaria è ispirato 
          l'Erario Reatino, che integra idealmente le precedenti opere 
          di Mariano Vittori (De Antiauitatibus Italiane et Urbis Reatis) 
          e di Pompeo Angelotti (Descrittione della citta di Rieti, 1536) 
          e porta a compimento uno studio analitico, condotto con lungo amore 
          fin dai tempi in cui, giovane professore di retorica, aveva pronunciato 
          l'appassionato discorso accademico La Patria difesa dalle ingiurie 
          del tempo.
          Loreto Mattei mori a Rieti nel 1705, senza peraltro portare a compimento 
          il suo Erario Reatino, a cui lavorò fino agli ultimi anni 
          della sua vita.
          
         
        Giuseppe Ottavio Pitoni (1657-1743)
        Fra coloro che hanno onorato la città 
          di Rieti per altezza d'ingegno e successo nel proprio campo d'azione, 
          va ricordato e celebrato in particolare il compositore Giuseppe Ottavio 
          Pitoni, il cui straordinario talento artistico lasciò una traccia 
          incancellabile nel panorama della musica sacra barocca in Italia.
          Giuseppe Ottavio Pitoni nacque dunque a Rieti in via Centuroni, il 18 
          marzo 1657 da Vincenzo, proprietario di una tipografia, e dalla ferrarese 
          Lucrezia Tedeschi.
          Sono scarse le notizie relative all'infanzia del futuro maestro, ma 
          se ne conosce il precoce talento.
          Dopo che nel 1658 la famiglia si fu stabilita a Roma, dove videro la 
          luce i fratelli minori Francesco Maria, destinato ad abbracciare la 
          carriera ecclesiastica, Isabella e Flavio, a soli cinque anni Giuseppe 
          Ottavio viene introdotto allo studio della musica e del canto.
          A otto anni, è fra le voci bianche del coro della chiesa di San 
          Giovanni dei Fiorentini e, poco più tardi, inizia a frequentare 
          il coro della chiesa dei Santi Apostoli.
          Appena quattordicenne, nel 1671 collabora con il suo maestro, il celebre 
          Francesco Foggia, nella composizione e nell'esecuzione dei salmi in 
          occasione dei festeggiamenti per la canonizzazione di San Gaetano di 
          Thiene.
          Intraprende dunque la sua carriera di musicista, che sarà lunga 
          e feconda, dirigendo nel 1673 la cappella della chiesa madre di Monterotondo, 
          assumendo un anno più tardi il più impegnativo incarico 
          di maestro di cappella presso la cattedrale di San Ruffino ad Assisi.
          Diciannovenne, è richiamato a Rieti dove rimane presso la Cattedrale 
          per 19 mesi: durante questo breve soggiorno reatino, scrive la messa 
          concertata a quattro voci "Sorge l'Alba in Oriente" 
          (26 agosto 1676).
          A venti anni viene nominato maestro della Collegiata di San Marco, incarico 
          che manterrà fino alla morte, unitamente con il ruolo di "musicae 
          praephectus " al Collegio Germanico-Ungarico di Sant'Apollinare.
          Alla morte del Foggia, subentrò al suo maestro a San Lorenzo 
          in Damaso, stabilendo un fecondo rapporto di reciproca stima con il 
          cardinale Pietro Ottoboni.
          Giuseppe Ottavio Pitoni, rivelando il suo infaticabile, fecondissimo 
          talento, curò contemporaneamente le attività musicali 
          della basilica di San Giovanni in Laterano, della cappella Giulia in 
          San Pietro, di Sant'Andrea della Valle e di altre celebri chiese romane, 
          fu Primo Guardiano e membro degli organismi direttivi della Congregazione 
          di Santa Cecilia.
          Nonostante siano andate perdute tutte le carte dell'archivio di San 
          Lorenzo in Damaso e del Collegio Germanico, di Giuseppe Ottavio Pitoni 
          restano più di quattromila sacre composizioni, a cui si aggiungono 
          i preziosi inediti degli scritti teorici di storia della musica.
          Successore ed almeno in parte seguace di Pierluigi da Palestrina, seppe 
          evolvere musicalmente dallo stile pieno allo stile concertato, contribuendo 
          all'evoluzione della musica sacra fra Seicento e Settecento attraverso 
          la sua produzione ed attraverso l'insegnamento dato ad allievi di prim'ordine, 
          come il Leo, il Chiti, il Feo, il Durante.
          
         
        Angelo Maria Ricci
        Nato a Mopolino, amena località fra Rieti 
          e L'Aquila, nel 1776 da una nobile famiglia, fin dagli anni della formazione 
          curata presso il Collegio scolopio del Nazareno Angelo Maria Ricci manifestò 
          un notevole talento poetico.
          Aderì dunque giovanissimo all'Accademia dell'Arcadia, dove fu 
          accolto con il nome di Filidemo Liciense pubblicando non ancora sedicenne 
          i versi dell'Omaggio poetico, dedicati al duca di Cantalupo.
          A venti anni, dopo essersi misurato con la versificazione in distici 
          componendo varie elegie, dette alle stampe il poemetto latino De gemmis, 
          in cui rivelò la sua capacità di esprimere felicemente 
          argomenti didascalici.
          Nel 1802, compose la Cosmogonia Mosaica, fisicamente sviluppata e poeticamente 
          esposta in sei meditazioni filosofico-poetiche, contribuendo così 
          a confutare gli esiti dell'illuminismo, coerentemente con la sua formazione 
          culturale e spirituale d'impronta cattolica.
          Tornato a Mopolino nel 1806, non fu insensibile alla grandezza di Napoleone, 
          di cui celebrò le imprese in una serie di Inni.
          Dopo il 1808, Gioacchino Murat lo volle a Napoli come bibliotecario 
          e precettore per i propri figli, affidandogli poi la cattedra di eloquenza 
          presso la Regia Università.
          Chiusa la parentesi napoleonica, Ricci tornò a Mopolino con la 
          moglie Isabella Alfani dove si dedicò alle cure familiari ed 
          alle lettere.
          In questo periodo, maturano il trattato Della volgare eloquenza ed il 
          poema epico Italiade, che anticipò - se non addirittura ispirò 
          - le tematiche manzoniane dell'Adelchi.
          A questo primo poema segui il San Benedetto, pubblicato nel 1824: la 
          tematica fu suggerita al Ricci da papa Pio VII, che nutrì profonda 
          stima nei suoi confronti.
          Nonostante si levassero non poche critiche verso quest'ultima opera, 
          il Tommaseo ne dette un lusinghiero giudizio ritenendo che "se 
          l'illustre Poeta imitatore dell'orgogliosa modestia de' buoni antichi 
          non cesserà di adoperare su questo grande lavoro pertinacemente 
          la lima, egli può vivere certo di ritrovare un compenso alle 
          lunghe e gravissime noie della correzione nell'immortalità che 
          lo attende".
          Angelo Maria Ricci preferì invece tornare ad occuparsi della 
          poesia didascalica, componendo la Georgica de' fiori, l'Orologio 
          di Flora, le Conchiglie.
          La morte della moglie Isabella, per la cui tomba Giuseppe de Fabris 
          scolpì il busto e Bertel Thorwaldsen un raffinato Genio alato, 
          ispirò al poeta meste elegie.
          L' amicizia con gli artisti più celebri del Neoclassicismo è 
          documentata da un interessante epistolario, confermata dalle opere custodite 
          presso il Museo Civico, dal gesso della Ebe del Canova ai busti del 
          de Fabris al bassorilievo del danese Thorwaldsen.
          Nel 1832, re Ferdinando II di Borbone, di passaggio a Rieti per andare 
          ad ammirare la cascata delle Marmore, volle onorare il poeta con la 
          sua visita, a testimonianza di una stima profonda che legava la casata 
          borbonica al cavaliere Angelo Maria Ricci.
          L'erudito poeta mori a settantaquattro anni di età, il primo 
          aprile 1850.