IL CAMMINO DELL'OLIVO Se - come si legge in "Olivicoltura"
di Alessandro Morettini - la tecnica di estrazione dell'olio venne introdotta
prima in Sicilia per merito delle fattorie fenicio-cartaginesi e da queste
diffuse nelle colonie occupate dai greci, vengono a cadere le altre ipotesi
che attribuiscono sempre ai fenici e ai cartaginesi l'introduzione dell'"olea"
direttamente verso il Lazio e che la coltura della pianta si sia estesa
poi verso il nord e contemporaneamente in Sicilia e in Calabria per opera
di altri gruppi isolati di navigatori fenicio-cartaginesi.
Non credo che si debba scartare l'ipotesi della contestualità della diffusione dell'olivo sia verso il centro della penisola italica che nelle isole (Sicilia e Sardegna) come pure in Calabria e quindi nel Salento e nella Campania. Una cosa è certa che la Liguria e la parte meridionale della Francia furono raggiunte in tempi successivi. Furono i fenici a portare l'uso dell'olio di oliva in Spagna tanto che i mercanti-navigatori si facevano pagare a prezzi salatissimi le anfore d'olio che smerciavano nella penisola iberica. L'olio veniva pagato con verghe di metallo prezioso e ciò sta a testimoniare l'alto valore commerciale e pratico che aveva raggiunto il liquido ricavato dalle varietà più disparate di "olea". Intanto si diffonde nelle terre occupate dai romani e prima ancora dai greci, la cultura della venerazione della pianta d'olivo. In ogni regione vi è una palese testimonianza di questa cultura tanto che ancora oggi olivi millenari ricordano l'antico rito del rispetto e della devozione spesso cristiana ma più delle volte pagana che le popolazioni avevano per la pianta di "olea" tenuta in vita oltre che da naturali avvenimenti fisiologici anche dalle attenzioni riservate ai "monumenti" sempreverdi che popolavano alcune "are". Si possono ammirare nelle varie regioni sia europee (Francia, Corsica, Spagna, Italia e Grecia) che mediorientali, maestosi alberi alcuni ancora pieni di linfa e di vitalità, altri che portano i segni dei secoli e alcuni dei millenni. Forte l'albero più grande e "vivace", ancora in vena di produrre olive è il famoso "livone" di Canneto Sabino (Rieti) che da qualche millennio sfida i venti e le intemperie, la siccità e le gelate che si susseguono nelle varie stagioni. Scrissi oltre trent'anni fa su una rivista specializzata di agricoltura, e lo ripetei in giro per il mondo nei miei servizi giornalistici, che quella di Canneto si poteva considerare una tra le più grandi piante di olivo del mondo. Avevo visitato gli oliveti d'Israele, della Siria, della Turchia, della Grecia, del Marocco, della Tunisia e della Spagna; avevo avuto accese discussioni con i religiosi che custodivano gelosamente gli olivi dell'anfiteatro collinare di Gerusalemme, e gli olivi dell'orto del Getsemani, e che conoscono bene gli olivi del Lago di Tiberiade e della plaga della Galilea, i quali asserivano essere quelli d'Israele gli olivi più grandi e più vecchi, ma mi ero trovato spesso di fronte a resti quasi archeologici di piante ormai senza vita mentre avevo potuto notare, come già accennato, ad alcuni meravigliosi e grandi olivi nella strada tra Hajfa e Tiberiade. Ho visto piante enormi in tutte le zone da me visitate ma nessuna che raggiungesse la maestosità e la "giovinezza" della vetusta pianta di Canneto Sabino. Solo in Calabria e in Puglia, come pure in qualche oliveto della Sicilia, avevo potuto ammirare olivi maestosi. Forse la Puglia è stata quella che mi ha offerto spettacoli impressionanti di piante secolari, qualcuna certamente millenaria, imponenti e rigogliose con i loro tronchi che sembrano più monumenti forgiati da architetti preistorici, tanta è la forza che evidenziano e tanta la vetustà segnata sulle contorte forme dei tronchi, uniche piante che possono contendere il primato all'olivo di Canneto Sabino. Ha ragione Horst Schäfer-Schuchardt quando nel suo libro "L'oliva la grande storia di un piccolo frutto", descrive minuziosamente le origini dell'olivicoltura nella terra degli Iapigi e degli Apuli, considerando proprio la Puglia come la più interessante dal punto di vista storico per capire il lungo cammino dell'olivo in terra Italica. Si ammirano d'altronde in questa terra meridionale stupendi monumenti arborei che sembrano divinità che hanno messo radici da qualche millennio nella piana di Monopoli. D'altronde anche la Daunia e il Gargano offrono spettacolari piantate di olivi che sfidano il vento e la salsedine marina e la siccità di molte stagioni. Comunque mi piace ancora credere che la pianta o meglio "ù livone" di Canneto, che a poche centinaia di metri dalla casa che mi vide nascere, è la più vecchia, la più grande e la più rigogliosa del mondo ma mi attendo da qualche parte un'altra smentita dopo quella dei frati di Gerusalemme con i quali mi riappacificai mangiando all'ombra di un secolare olivo pane azimo cosparso di lucentissime gocce di olio palestinese. Ma anche in Toscana esistono alberi famosi come "l'olivo della strega" di Magliano (Grosseto) che sembra un tempo sia stato abitato da una crudele strega vendicatrice; forse chiamato così perché durante il passaggio dal culto pagano al cristianesimo alcuni rimasero fedeli alla tradizione dei padri venerando questo olivo maestoso come fosse una deità. L'albero, ancora parzialmente vegeto, si trova proprio accanto alla Chiesa della Santissima Trinità fuori le mura e sembra che le prove al radicarbonio abbiano stabilito in tremila anni circa l'età di questo olivo. Ciò dimostrerebbe che Fenestella aveva detto il falso asserendo che ai tempi di Tarquinio Prisco (580a.C.) non v'era traccia di olivi non solo in Italia ma neanche in Africa. Mentre già prima dell'anno 1000 a.C. esistevano olivi che davano frutti da olio sia nel Lazio che in Toscana. Divenuto un importante elemento sia economico che nutrizionale ed anche fattore religioso, l'olio nella Roma degli imperatori cesariani diventa un soggetto fiscale di tutto rispetto. Tasse enormi venivano imposte non solo per l'esportazione ed importazione di questo liquido pregiato, ma anche per la vendita al minuto agli stessi consumatori cittadini di Roma. Forse Plutarco ha esagerato nella sua descrizione puntigliosa sul balzello che Giulio Cesare impose alla città della Tripolitania, Lepcis Magna o Leptis Magna, che più delle altre era dedita al commercio verso Roma di prodotti agricoli e in specie olio di oliva e grano. Sembra inverosimile che si producessero quantità inimmaginabili di prezioso liquido dorato ma circa tre milioni di fibre d'olio furono pagate a Roma in una sola volta come tributo fiscale, dalla florida cittadina nordafricana. Una scenario olivicolo impressionante quello di allora se consideriamo che oggi la Libia (Tripolitania) produce mediamente circa 200 mila quintali di olio di oliva l'anno. Troppe le testimonianze che ci parlano dell'olio come prodotto ricercato, pagato anche a caro prezzo e riservato oltre che all'alimentazione, ai culti religiosi, alle manifestazioni sportive e alla cura del corpo. Come abbiamo potuto leggere nella descrizione precisa che fa Plinio dell'olio, ormai la penisola italica primeggia nella produzione di olive e olio tanto da diventare un riferimento per le altre colture olivicole dell'Impero Romano. Per capire meglio l'espansione non solo della coltura degli oliveti ma dell'olio estratto con disparate tecniche, cerchiamo di capire l'evoluzione attraverso i secoli dell'arte della molitura nelle varie civiltà. Anche se i resti di numerosi "centri di estrazione" dell'olio dai frutti dell'olea sono rari e dispersi su vari fronti e quello di semplici mole di macinazione o "trappeti", di presse e di recipienti litici per raccogliere l'olio sono databili a tempi relativamente recenti rispetto alle origini dell'utilizzo dei frutti di olive per ottenere olio sia per usi cultuali che alimentari, tuttavia possiamo immaginare che già qualche millennio prima dell'era cristiana l'uomo aveva scoperto le proprietà oleaginose della drupa delle piante che sono le progenitrici dell'attuale "olea europea". Forse gli uomini del tardo Neolitico, alla ricerca non di emozioni culinarie ma di elementi che potessero agevolare la loro alimentazione rendendola più affidabile, più ricca e forse gastronomicamente più appezzabile, avevano scoperto il liquido amarognolo e acido spremuto dai frutti immangiabili delle prime piante di olivo apparse sulla scena dell'uomo "cacciatore-raccoglitore". Lasciate accantonate in qualche angolo delle prime abitazioni o forse mangiate cotte sotto la brace, come si fa ancora oggi in alcune regioni, e accortosi del contenuto oleoso delle olive, il primo "scopritore" dell'olio avrà provato a immergere nel liquido ambrato, forse troppo inacidito ma comunque appetitoso, un pezzo di carne oppure una radice o un tubero. Dalla casuale scoperta del liquido alla frantumazione provocata con lo sfregamento di pietre su un piano sempre in pietra che permetteva la fuoriuscita delle gocce di olio dalla pasta pressata con le mani o con qualche altro marchingegno, forse l'uomo riuscì a darsi delle regole pratiche per catturare dai frutti l'olio con il quale condire il cibo o per sfregarlo sulla pelle per lenire dolori, o curare ferite. Non si può far risalire la scoperta dell'olio per uso alimentare alla stessa epoca in cui apparvero i primi rudimentali "trappeti", esso certamente era già conosciuto. Per millenni l'uomo avrà continuato, come per i cereali, ad utilizzare approssimativi strumenti litici per la frantumazione e per la raccolta dell'olio estratto. Molti avanzano l'ipotesi che l'olio di oliva sia stato utilizzato prima per scopi medicinali, cosmetici e cultuali e quindi proposto come ingrendiente di pregio per gli alimenti quotidiani. Non credo affatto a questa soluzione poiché sarà solo per la preziosità e l'aiuto dato all'uomo nella preparazione del cibo e renderlo più appetibile che l'olio di oliva diventerà in seguito anche un simbolico e sacro elemento da donare agli dei, ai vincitori, agli eroi e sarà utilizzato anche a scopi medicinali e cosmetici. L'uomo nella sua evoluzione, nel mutamento e nel consolidamento dei nuovi traguardi genetici, cerca prima di tutto elementi gratificanti per la sua sopravvivenza quindi ha in ogni scoperta alimentare un riferimento nuovo per "mangiare meglio per vivere meglio". Non possiamo immaginare che prevalga nell'uomo primitivo e comunque anche nell'uomo del Neolitico e del più recente passato storico, la propensione a dedicare prima agli dei e poi al proprio organismo i frutti delle sue scoperte. Si può affermare che l'uomo prima mangia per sopravvivere poi pensa alle deità che immagina in quanto sazio e felice della sua condizione di vita. Non è pensabile dunque che l'olio di oliva, considerato in alcune civiltà evolute un liquido prezioso da donare agli dei e che è simbolo di forza, di purezza e di vittoria, non abbia avuto prima di tutto un ruolo alimentare. L'impiego cultuale, cosmetico, edonistico e propiziatorio, è conseguenza ovvia delle sue preziosità scoperte dai sensi dell'uomo mangiatore sia carnivoro che vegetariano o frugivoro. Forse altri scavi porteranno alla luce reperti che ci daranno una mano a capire le origini dell'arte di frantumare le olive per estrarne olio, per ora accontentiamoci di quelli che sono stati già scoperti o ricostruiti dall'uomo moderno sulla base d'intuizioni e ritrovamenti archeologici. Partiamo dalla certezza della raccolta organizzata delle olive che deve necessariamente aver seguito l'evoluzione della coltura delle piante di olivo. Se fino al I millennio a.C. le drupe venivano raccolte in modo casuale e disordinato e quindi frantumate con strumenti approssimativi per ottenerne olio quantitativamente e qualitativamente di scarso interesse, non appena si scoprono le opportunità offerte da alcune varietà (cultivar) e da alcuni terreni più adatti degli altri ad accogliere oliveti, si affinano anche le tecniche di coltura, di raccolta e di molitura delle olive. Testimonianza di questa attività, ormai affrancata dall'improvvisazione, sono alcuni reperti (vasi, anfore, affreschi, mole, trappeti, presse, torchi) che essendo datati, ci danno un'idea più chiara della evoluzione dell'arte molitoria e in generale della olivicoltura. Quello che si trova, insieme a tante altre testimonianze, al Museo dell'olivo e dell'olio di Haifa (Israele), è forse il più antico reperto risalente all'incirca al I millennio a.C. la cui parziale ricostruzione chiarisce in modo inequivocabile la tecnica di estrazione dell'olio, Nell'estremità della parte lignea (completamente ricostruita) che riguarda il braccio della pressa, venivano appese delle pietre per premere sulla massa di sansa raccolta in modo alquanto primitivo tra "fiscoli" ottenuti intrecciando ramoscelli o forse altri vegetali che trattenevano la sansa lasciando defluire l'olio sotto l'azione del peso che si concentrava nel punto di contatto tra il tronco e la pila dei fiscoli. L'olio veniva raccolto in speciali crateri o vasi quando non addirittura in pietre scavate in modo da fungere da contenitori e separato poi dalle acque di vegetazione e dai residui di sansa per affioramento. Questo è il primo cenno di tecnica molitoria che la storia ci abbia tramandato. Per quanto riguarda la raccolta delle olive e il commercio dell'olio esistono, anche se relativamente recenti, alcune testimonianze più originali e affidabili che risalgono intorno al VI e V secolo a.C.. Anche se si parla in, molti documenti di olio e di olivi fin dal XX secolo a.C., basti pensare, come già accennato, alla processione dei raccoglitori di olive, che si ammira in un vaso o "rhyton" di steatite, risalente al XV o XVI secolo a.C. e conservato al Museo di Hiraldion (Creta), non si hanno testimonianze più antiche delle tecniche di raccolta e molitura delle olive. Accontentiamoci dunque di questa "primizia" per un mestiere antichissimo ma abbastanza sconosciuto. Per quanto concerne l'arte di raccattare le olive, brucandole a mano o bacchiandole, esistono alcune immagini di sconcertante attualità come quelle raffigurate sui vasi che si trovano nei Musei Vaticani inerenti il commercio dell'olio di oliva o come quello ritrovato a Vulci che raffigura la bacchiatura e cattatura delle olive e che si trova al British Museum di Londra. Per quanto riguarda la frantumazione delle olive, pur rimanendo identico il principio, mutano le forme, la grandezza e la sofisticazione delle prime presse e dei primi torchi in pietra e legno utilizzati in Asia Minore, in Grecia, in Egitto e in Palestina, come pure in Sicilia, in Campania, in Puglia, in Calabria, a Pompei e in alcune zone della Sabina. Forse prima di quelle che conosciamo, i nostri antenati avevano usato piccole presse manuali formate da un piano levigato di pietra sul quale era ricavato un sottilissimo anulare, quindi poco profondo ma tale da permettere all'olio di defluire in un recipiente, e da un pestello sempre in pietra che serviva a schiacciare le drupe. Queste prime testimonianze non sono state ritrovate o si sono confuse con altri manufatti litici similari che servivano per altri scopi. I primitivi "trappeti" che si sono trovati in varie parti della regione mediterranea (Egitto, Palestina, Turchia, Creta, Grecia, Puglia, Pompei) e che sono rimasti in uso fino ad alcuni secoli fa, possono darci un'idea esatta e definitiva sugli strumenti usati dai primi raccoglitori specializzati di olive. Se con il passare dei secoli è cambiata la potenzialità produttiva dei "trappeti", fino a molti secoli d.C., rimane intatta la materia prima usata: la pietra. Essa viene utilizzata per fungere da basamento per il "frantoio", per la pressa e per i recipienti atti a raccogliere il liquido ottenuto dalla spremitura della sansa dopo la frantumazione prolungata delle olive. |