LA LUNGA STRADA DELL'OLIVO Riprendiamo ora il percorso
della nobile ed utile pianta di olivo, venerata, custodita, ambita ormai
da tutte le civiltà mediterranee.
Il diffondersi della coltura delle vite e dell'olivo segnò una delle più profonde trasformazioni del panorama generale dell'agricoltura italica e si riflesse in forte misura sia sul paesaggio agrario che sulle problematiche dell'economia rurale. Le due piante erano già note in Sicilia e nell'area costiera del Mezzogiorno fin dal II millennio a.C.. Nella lunga fase successiva, l'una o l'altra, o ambedue, comparvero certamente in altre zone, in maniera più o meno discontinua: comunque già nel VII secolo a.C. l'Etruria (e la Sabina aggiungo io) conoscevano l'olivo. "Tuttavia l'espansione su larga scala delle suddette colture e soprattutto il loro adattamento alle diverse condizioni locali delle varie regioni si verificarono soltanto con l'instaurazione del dominio romano sulla penisola". (Jerzy Kolendo in "Campagna e ceti rurali" dalla "Storia della Società Italiana" II vol. Teti Editore). Come si può notare, molti autori concordano sulla presenza dell'olivo in terra italica qualche millennio prima dell'era cristiana. Abbiamo già detto che essa vi approda forse per merito dell'antichissimo "popolo di navigatori" o forse dei Fenici che nel loro peregrinare attraverso il Mediterraneo portano con se alcune pianticelle di "olea" già progredita come varietà, frutto di una coltivazione mirata a selezionare i cultivar più idonei a dare buoni frutti e buon olio. Se in alcuni scavi, in molti paesi europei (Francia, Italia, Inghilterra) sono stati trovati resti fossili di alcune specie arboree che ricordano da vicino l'attuale "oleaster" ciò non significa affatto che i nostri progenitori del Miocene o del più recente Paleolitico abbiano avuto occasione di fare la conoscenza con le olive e tantomeno con l'olio estratto da esse. Si metterebbero in discussione le origini più recenti della coltivazione dell'olivo allo scopo di ottenerne frutti mangiabili o per estrarne olio alimentare. Possiamo affermare ancora che la coltivazione a tali scopi della pianta di olivo è nata senz'altro in Asia Minore anche se in molte altre zone della terra, nel senso più ampio e globale della parola, sono stati trovati reparti fossili di alcune specie selvatiche di "oleaster". D'altronde i processi chimico-biologici naturali che accadevano in giro per l'universo sia animale che vegetale, sono stati scoperti e, studiati oltre che codificati in determinate località e per merito di precisi soggetti umani. Ora non possiamo defraudare i nostri, antenati che vissero millenni addietro nell'Asia Minore, del merito di aver scoperto le opportunità offerte da questa pianta e di averla propagata per interesse o per puro altruismo in altre zone del Mediterraneo. Dobbiamo anche non dare credito ad alcuni autori, né a Teofrasto né tantomeno a Fenestella che vogliono azzerare, forse per leggerezza, alcuni secoli di coltura dell'olivo in terra italica. Ci fanno giustizia non solo Plinio e Columella ma anche alcuni alberi di olivo ancora vivi e vegeti che la prova dell'Isotopo Carbonio 14, utilizzato per la datazione dei reperti fossili, documenta la loro nascita risalente a circa tremila anni fa. Possibile che queste piante, spesso ancora fruttifere, nonostante la vetusta, siano solo eccezioni e non documentino una realtà agronomica esistente già in quei tempi? Non si spaventino gli inesperti per questa sarabanda di epoche, di secoli e di millenni riferiti ad una specie arborea poiché l'olivo con il suo apparato mammellare od ovolare può vivere decine di secoli anche se le sue proprietà di fruttificazione hanno un andamento decrescente a partire dal secondo o terzo secolo di vita. Se un olivo cresce in un habitat idoneo a mantenerne intatte le proprietà rigenerative di ogni stagione tenendo lontani sia dal fusto che dal ceppo e dall'apparato radicale ogni forma di manifestazione patologica o traumatica (malattie, gelo, umidità etc.) può vivere a lungo anzi sopravvivere a generazioni e generazioni fino a decine di millenni poiché il suo ovolo resiste bene proprio nell'età più adulta a qualsiasi agente esterno. È proprio dall'ovolo, spesso interrato e quindi non visibile, che nascono nuovi succhioni che sono potenziali fusti che solo la coltura dell'uomo riesce a governare asportandoli per non permettere la crescita di fusti estranei al fusto principale. Questo ulteriore preambolo serve per far capire che gli olivi millenari esistenti ancora oggi in Italia potrebbero essere stati piantati dall'uomo e non nati casualmente da un seme lasciato cadere dagli uccelli. Se già nel I millennio a.C. c'erano olivi, anche se della varietà oleaster, probabilmente responsabili di questa "coltura" furono i popoli che occuparono queste terre in via provvisoria o per periodi più lunghi. I Fenici quindi o qualcuno prima di loro, probabilmente portarono nel Lazio la coltivazione della pianta d'olivo che nella loro terra d'origine aveva avuto una forte espansione ed era tenuta nella massima considerazione. Per parlare nello specifico della terra Sabina bisognerebbe rifarsi alle origini di questi popoli che gravitano su Roma ma forse avevano lontane origini. Se qualcuno avanza l'ipotesi delle origini spartane dei Sabini potrebbe essere risolto anche il cammino dell'olivo che tra gli spartani, greci, fenici e siri, era non solo conosciuto ma coltivato puntualmente qualche millennio prima. Non esiste però una documentazione o una traccia della discendenza dei Sabini da coloni giunti da Sparta, forse tutto va inquadrato nell'idea diffusa che i costumi severi dei Sabini in quei tempi ed anche in tempi recenti, facevano considerare questo popolo "spartano" come condotta di vita e morigeratezza rispetto al costume dei romani e degli altri popoli viciniori ma che in realtà era un popolo "autoctono". "Dunque per la serenità e austerità morale dei Sabini, Servio (grammatico e filologo latino) conosceva due spiegazioni diverse e contrapposte (aut.. aut), l'una legata alla disciplina tradizionale di quel popolo (quindi una spiegazione in chiave nazionale ed autoctona), l'altra legata invece alla sua diretta origine spartana" (da "I mores dei Romani e l'origine dei Sabini in Catone" di Cesare Letta dal Convegno di studi su Preistoria e Storia dei Sabini" - Rieti - Ottobre 1982). Un'altra soluzione al mistero della comparsa di olivi in Sabina potrebbe essere quella di ipotizzare la presenza in questa terra di piante selvatiche e quindi cespugliose di oleaster fin dai tempi antichissimi dando così credito alle scoperte di reperti fossili di specie vegetali risalenti al periodo miocenico o al più recente paleolitico in varie zone d'Italia. Da questa situazione, attraverso una coltura mirata, e oserei dire specializzata, le piante cespugliose e selvatiche siano addivenute con un unico fusto (in contrasto con la naturale tendenza cespugliosa dell'olivo) allo stato di piante domestiche e quindi produttive. Se accettiamo invece l'ipotesi che l'olivicoltura nel Lazio e specificatamente in Sabina, sia approdata in tempi più recenti (dando ragione a Fenestella e agli autori che come lui sono scettici sulla presenza di olivi in Italia prima del V secolo a.C.) allora dovremmo credere che siano stati i romani, divenuti padroni dello scenario olivicolo mediterraneo a facilitare la propagazione della pianta anche sui contrafforti del sistema collinare Sabino. Personalmente non concordo con quest'ultima ipotesi poiché non credo che il "livone" di Canneto Sabino, come "L'Olivo della Strega" di Magliano di Toscana o le altre decine di piante millenarie, siano frutto della fantasia e non di una realtà agronomica provata e comprovata dalle esperienze di vari studiosi oltre che dalla prova dell'isotopo di Radiocarbonio. Sono numerosi i reperti trovati anche in Puglia che testimoniano la presenza della coltura dell'olivo e l'uso dell'olio alcuni secoli prima dell'era cristiana. Una cosa è certa che Columella (vissuto agli inizi del I secolo d.C.) quando fa riferimento agli scenari olivicoli della Sabina parla di una coltivazione già collaudata dai secoli e non frutto di una coltura nuova e di recente acquisizione da parte di quelle popolazioni. D'altronde anche Varrone, e Virgilio cento anni prima di Columella, avevano descritto l'olivicoltura come se facesse parte delle coltivazioni tradizionali della terra italica e non una recente conquista dovuta all'espansione di Roma verso il Mediterraneo. Con la potenza di Roma e la conquista di territori specializzati nella coltivazione dell'olivo e nella produzione di olio per uso alimentare e cultuale, fu certamente facilitata l'espansione di questa pratica agronomica. La Sabina, area tipicamente agricola e pastorale, concede spazio all'olivicoltura che raggiunge nei secoli a cavallo dell'era cristiana, uno sviluppo senza precedenti. Con la grave crisi cerealicola, in coincidenza con il primo secolo dell'Impero, Roma come si può leggere in Columella (V, 1-3), preferisce agevolare la coltura dell'olivo e la Sabina è terra deputata ad ospitare le migliori varietà di olivi. Alla primitiva predominanza di Roma con i suoi commerci vinicoli ora si fa strada la ricerca di prodotti alternativi che soddisfino la bramosia degli imprenditori agricoli sia romani che sabini con nuove fonti di reddito. Nelle ville di primitiva fattura, costruite a ridosso della città oppure anche in terre lontane come nell'alto Lazio, i signori della terra organizzano strutture che somigliano ad una vera e propria "fattoria agricola" con le pretese di un'architettura sfacciatamente opulenta che sta tra la "ricca frugalità" delle cose terragne e l'espressione o il simbolo di una "luxuria" che rasenta la voluttà propria del decadentismo imperiale. La villa naturalmente ricalca lo stile e le abitudini di vita dei signore che l'abita ma è divisa in due parti: una urbana, riservata al "dominus", ed una rustica che ospita attrezzi, uomini e prodotti che interagiscono con la campagna. "Ne fanno parte anche i locali per l'olio (Storia di Roma; Andrea Carandini - La villa romana e la piantagione schiavistica); per accogliere le olive raccolte (tabulatum), posto come l'apotheca-fumarium al primo piano della parte rustica, per macinare le olive (trapetum, mola), per torchiarle (torcolarium), per conservare l'olio (cella olearia)." Il miracolo economico rappresentato dall'esportazione dei vini di Roma, nelle celebri anfore che contengono il Cecubo, il Falerno e l'Albano, presto termina per la concorrenza spietata dei vini delle colonie e per il mutato stile di vita dei cittadini dell'Impero Romano. Ormai l'olio prodotto a sud e a nord di Roma nella terra dei Sabini, diventa il "liquido essenziale" non solo per l'economia agricola di Roma ma, dato l'alto potere calorico e nutrizionale oltre che per l'utilizzo variegato, l'ulivo è sempre più apprezzato nella scelta dei nuovi impianti arborei. Per l'esportazione dell'olio vengono studiate anfore sempre più grandi per rispondere meglio alle necessità dei trasporti via mare. Anche la Sabina deve abdicare a favore dell'olio nonostante la fertilità di alcuni colli come ci ricorda Plinio (Storia naturale XIV, 28 e seg.). "Difficile è per essa (l'uva Visulla) la scelta del suolo, poiché marcisce in terreni grassí, ma non si sviluppa completamente se il terreno è magro, la sua delicatezza richiede un terreno medio, motivo per cui è comune sulle colline della Sabina". Ormai la dieta dei romani e dei cittadini che gravitano su Roma si è modificata. L'apporto di proteine e di carboidrati da parte dei cereali sia nobili che "primitivi" come il farro utilizzato soprattutto dalle popolazioni sabine, viene parzialmente integrato dall'uso di grassi vegetali quali l'olio di oliva. Ormai è scientificamente provato che nell'Etruria e nel Lazio (a sud e a nord di Roma) la coltivazione dell'olivo è divenuta preminente. Anche se facciamo un torto alla Sabina, non avendo un eguale documentazione, cerchiamo di immaginare come erano le "fattorie agricole" di quei tempi rifacendoci a quella di Centofinestre nell'Etruria, per capire l'importanza dell'olio e delle olive nell'economia agricola di quelle popolazioni. Nella ricostruzione di M. Medri (dal Volume "Storia di Roma" IV vol. Giulio Einaudi Editore) si possono ammirare gli spazi dedicati all'oliveto, ai magazzini delle olive e dell'olio come pure al frantoio. "Nel momento in cui la "luxuria" (G. Pucci - "I consumi alimentari nella storia di Roma") viene riconosciuta come un potenziale fattore destabilizzante della compagine sociale, il cibo che simboleggiava la rimpianta semplicità di un tempo è indicato come un valore positivo a cui restare fedeli". L'imperativo era: privilegiare gli alimenti di origine vegetale quindi olio di oliva e non più grassi animali. Ma Roma, scoperta l'importanza dell'olio per i vari usi: alimentare, cultuale, cosmetico e per l'illuminazione, necessita di quantità sempre maggiori di questo straordinario prodotto. Vengono ampliati gli oliveti della Sabina e del Lazio meridionale come pure delle terre che erano più delle altre ideali per accogliere i vari tipi di cultivar selezionate dagli agronomi che ne studiavano da vicino i comportamenti produttivi e le risultanze qualitative degli oli estratti.
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